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Venerabile Mons. Luigi Novarese - Scritti editi:
Edizioni CVS: La verità all'ammalato - 1967 - pag. 19-50

La verità all'ammalato

VALORE SOPRANNATURALE DELLA SOFFERENZA

Mons. Luigi Novarese

GUARDIAMO AL DOLORE
Il tema è della massima importanza, perché riguarda tutte le persone, di qualsiasi classe sociale, di  qualunque età.
Il dolore, in verità, è entrato nell’esistenza umana come un ospite sgradito. Quando bussa alla porta di ognuno, entra senza attendere risposta, senza dire il tempo della permanenza; per chi è stato toccato: “ è l’ora della prova ”.

La sofferenza, ‘metro’ dell’uomo
Si usa dire che la sofferenza è la misura dell’uomo. I Santi sono coloro che seppero dilatare il cuore soltanto all’amore, ma anche al dolore, e questo perché il dolore in se stesso sia bello, gradito, ma. non ma per una maggiore capacità di amare e di andare incontro alle necessità dei fratelli.
Già da queste affermazioni si intravede tutta una impostazione, una finalità, una vocazione: il dolore può servire a qualcosa.
Non è una pura negatività; può diventare anche elemento di costruzione e di vita.
Ma tutto questo, in se stesso? Da solo?
No certamente!
Il dolore, intanto, è, indirettamente, una dimostrazione della bontà della natura, in cui siamo stati creati. S. Tommaso afferma: “ La sofferenza, per la perdita di ciò che è buono, dimostra la bontà della natura; perché la natura desidera qualcosa come un bene e soffre allorché sente che questo viene allontanato ” (5. Th. I-II-q. 35, ad 3.um).
La sofferenza ci dimostra che la vita presente non è fine a se stessa, perché il benessere o la sua privazione, su questa terra non segue la bontà o meno dell’individuo.
Ancora S. Tommaso, commentando il libro di Giobbe (c. VII, lect. 1) dice espressamente che “ la presente vita dell’uomo sta all’ultimo fine come il moto sta alla quiete e la via al termine ”. Giobbe paragona la vita a categorie di uomini che bramano conseguire un fine: ai soldati che combattono per conseguire la vittoria; al servo che lavora sotto la guida del padrone.
Questi due esempi dicono come l’uomo cammini sotto la guida della Divina Provvidenza, perché come il Comandante spinge il soldato alla vittoria attraverso fatiche, combattimenti e dolore e lo premia poi per il successo conseguito, così la Divina Provvidenza non esime i buoni dalle fatiche e dai dolori, ma li premia al termine della loro esistenza in proporzione delle fatiche e delle sofferenze sostenute.
Che cos’è allora il dolore?
E’ la conoscenza e la percezione della privazione di un bene posseduto oppure desiderato.
Per stabilire la nozione del dolore si richiedono due elementi:
a) un male che priva di un bene;
b) la percezione di questa privazione.
Per quanto concerne il dolore fisico si richiede:
a) una lesione o alterazione del corpo;
b) la percezione della lesione.
La sofferenza può essere fisica o morale.
Da un’inchiesta diretta nel 1955 a 15.000 ammalati del “ Centro Volontari della Sofferenza ” per sapere se nello stato di malattia sia superiore la sofferenza fisica o morale, l’unanime risposta fu che di gran lunga è superiore la sofferenza morale per motivi facilmente intravedibili.
Il dolore quindi, in sé, non è qualcosa di positivo e di costruttivo.
Se lo consideriamo in piano fisico, esso è disgregazione e distruzione: si soffre perché un organo non funziona, e in questo caso la sofferenza è il campanello di allarme di una alterazione fisica.
Si soffre per la vita che va verso un declino ed è allora l’indice di un giorno che tramonta, mentre si vorrebbe lavorare ancora con l’energia e l’entusiasmo del mattino.
Il dolore morale è agonia e lacerazione dell’anima. Si soffre perché una persona cara viene meno su questa terra ed il fatto ci ricorda che non abbiamo qui una perenne abitazione, ma tendiamo ad una patria ove non ci saranno più separazioni e distacchi.
Si soffre nel momento della tentazione e questo indica una malattia dello spirito, per cui dobbiamo affrontare l’urto della passione per costruire, pezzo per pezzo, quella perfezione, a cui siamo stati chiamati.

VALORE DEL DOLORE
Il dolore è quella moneta che scorre su tutti i tavoli, ma non da tutti compresa nel suo giusto valore, perché ben diversa è la stima che se ne fa.
Evidentemente occorre vedere e stabilire delle sfere di considerazione, dei punti di valutazione ditale moneta.
Affrontando il problema del dolore, noi apertamente affermiamo che lo consideriamo soltanto alla luce del Santo Vangelo, come una realtà in grado di dare una risposta piena, chiara, costruttrice.

Nella mente di Dio
Dio è carità, ordine, provvidenza; il dolore quindi non può venire da Lui, non può essere stato direttamente creato. E’ precisa volontà di Dio che tutte le cose abbiano a raggiungere nella maniera più ampia e più piena il fine per cui sono state create.
L’uomo nella mente del Creatore avrebbe dovuto riflettere senza alcuna ombra l’infinita sapienza di Dio con la propria intelligenza e nell’esercizio della sua libertà egli avrebbe dovuto rendere un continuo atto di sottomessa e riconoscente adorazione.
Quale gloria avrebbe potuto rendere l’uomo a Dio se egli fosse stato un predeterminato, un essere obbligato?
Eppure proprio nell’esercizio di questa libertà, l’uomo ha trasgredito la legge del Signore e in conseguenza di tale trasgressione volontaria è subentrata nell’umanità la morte, conformemente a quanto afferma S. Paolo: “ Per il peccato di un uomo la morte è entrata nel mondo ” (Rom. 5, 12).
Con il dolore è subentrata anche la legge del lavoro, pena anche questa dovuta al peccato dei nostri progenitori.
L’uomo, dopo il primo atto di ribellione a Dio, si è trovato come un re spodestato, privo di tutti i doni soprannaturali e preternaturali che, con la vita, avrebbe dovuto trasmettere ai propri discendenti.
Egli soltanto dunque è il vero ed unico colpevole responsabile del proprio stato: tutto ha da incolpare a se stesso per lo stato di fragilità in cui si trova e per cui soffre.

Nel piano della Redenzione
Come si è comportato Dio di fronte a tale atto di ribellione?
Nella considerazione del piano della Redenzione ci troviamo di fronte alle investigabili ricchezze dell’amore misericordioso di Dio.
Se tanta sapienza e tanto amore ha manifestato il Signore creando l’umanità, molta di più ne ha dimostrata, risollevandola e riponendola nella sua antica dignità. Egli ha accettato l’offerta del Suo Divin Figlio, ha stabilito un piano di riconciliazione in cui l’uomo viene interiormente risanato: ritorna la figliolanza divina perduta con il peccato, la stessa condanna del lavoro e del dolore viene mutata in mezzi di conquista.
Nel piano redentivo, il Figlio di Dio, prendendo sulle proprie spalle tutti i peccati dell’umanità, non solo si è servito, quale mezzo di conquista, della condanna stessa inflitta al genere umano, ma apertamente ci ha ripetuto la necessità di soffrire insieme a Lui per essere con Lui partecipi della vita eterna.
Egli si è presentato all’Eterno Padre quale Capo dell’umanità, soffrendo in Sé tutto ciò che era umanamente possibile, donandoci inoltre la Sua vita, affinché noi pure, uniti a Lui, col vincolo della grazia, potessimo, sul Suo invito e sul Suo esempio, continuare attraverso il tempo il sacrificio compiuto sul Calvario a beneficio proprio e degli altri. Il dolore in tale maniera è diventato un mezzo soprannaturale di ricostruzione morale; sociale.
Gesù ha parlato apertamente della necessità che il Figliolo dell’Uomo soffrisse per la salvezza del genere umano, ma ha pure nel tempo stesso stabilito che il riconoscimento dei suoi discepoli avvenga dall’unione che essi debbono avere con Lui nel portare la propria croce.
A Pietro che si ribellava di fronte a tali insegnamenti con chiarezza ed energia rispondeva: “ Va lontano da me, satana! Tu mi sei di scandalo, perché non ragioni secondo Dio, ma secondo gli uomini ”! (Mt. XVI, 23).

Cristo lancia una vocazione al dolore
“ Chi ha dato al dolore dell’uomo il suo carattere sovrumano, oggetto di rispetto, di cura e di culto, è
“ Cristo, paziente, il grande fratello di ogni povero,
“ di ogni sofferente. V’è di più: Cristo non mostra
“ soltanto la dignità del dolore: Cristo lancia una
“ vocazione al dolore. Questa voce, figlie e fratelli,
“ è tra le più misteriose e le più bene fiche che abbiano attraversato il quadro della vita umana. Gesù chiamò il dolore ad uscire dalla sua disperata “ inutilità e a diventare, se unito al Suo, fonte positiva di bene, fonte non solo delle più sublimi virtù che vanno dalla pazienza all’eroismo e alla sapienza — ma altresì alla capacità espiatrice, redentrice, beatificante della Croce di Cristo.
“ Il potere salvi fico della passione del Signore può diventare universale ed immanente in ogni nostra “ sofferenza, se è con la condizione accettata e sopportata in comunione con la Sua sofferenza.
La “ compassione da passiva si fa attiva, idealizza e santifica il dolore umano, lo rende complementare a quello del Redentore.
“ Ricordi ognuno di noi questa ineffabile possibilità.
“ Le nostre sofferenze, sempre degne di cure e di
“ rimedi, diventano preziose. Nel cristiano si inizia
“ un’arte strana e stupenda: quella di far servire il
“ proprio dolore alla propria ed altrui redenzione ”.
(Paolo VI, Venerdì Santo 1964).

Incorporazione a Cristo
Tale vocazione parte da due principi:
a) siamo incorporati a Cristo per mezzo del Santo Battesimo; la Sua vita circola in noi, per cui noi, mediante la grazia, diventiamo membra vive ed operanti del Suo Corpo Mistico, con le stesse ed identiche finalità per cui Egli si è incarnato ed è morto in croce.
Non è del braccio o della mano stabilire l’azione, gli scopi di un determinato intervento; le membra del corpo docili seguono l’impulso della volontà che parte dalla mente. Così avviene anche nella vita spirituale. Costituendo noi tutti un solo organismo con Gesù Cristo, ogni membro vive ed opera in base alla vita divina che ha in sé, occupando un posto ben determinato in questo Mistico Corpo, secondo la grazia e la forza che lo Spirito Santo dà come vuole.
Di fronte però alle tante occasioni particolari che esistono e che sono causa di dolori resta la vocazione generale, uguale per tutta l’umanità, quella corrispondente alla condanna generale dei nostri progenitori nel paradiso terrestre: la morte.
Gesù si è incarnato e si è offerto al Padre celeste per attuare il piano della redenzione. Ogni membro quindi del Corpo Mistico di Gesù Cristo vive ed attua la stessa vocazione ed offerta di immolazione che Nostro Signore Gesù Cristo ha formulato ed attuato con la Sua preziosissima morte.
La donazione di questa vita soprannaturale rende possibile la partecipazione dell’uomo al piano della Redenzione. Se non ci fosse questa partecipazione di vita divina in noi, in nessun modo noi potremmo continuare la Passione di Gesù. Questa incorporazione a Gesù Cristo fa sì che l’uomo per sua natura, dal fatto stesso di avere in sé questa vita di grazia, già abbia, anche se non ci pensa, uno scopo che non è stato lui a stabilire, ma Gesù Cristo stesso che è il capo di questo Mistico Corpo, di cui lui è membro; e questa è la vocazione generale alla sofferenza.

Benefici personali e sociali
b) “ Chi vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua ” (Mt. 16, 24); la vita del cristiano deve essere un portare la propria croce in un modo, per quanto possibile, gioioso.
a) per i benefici personali che ne derivano;
b) per i benefici sociali verso gli altri;
c) per l’onore, cui siamo fatti partecipi con l’associazione allo stesso fine per cui Gesù si è immolato.
Da questo piano generale di lavoro e dolore si stacca ancora una vocazione particolare, proprio perché in un corpo ci sono tante membra e tante precise funzioni: è la vocazione dei sofferenti, una vera e propria vocazione personale ai dolore come una qualsiasi altra vocazione.
Sua Santità Paolo VI ha detto:
“ Cristo lancia una vocazione al dolore, chiama il dolore ad uscire dalla sua disperata inutilità” (Paolo VI,
Venerdì Santo 1964); è la vocazione al dolore, quello stato di sofferenza che, natura sua, per la sua stabilità od incurabilità ha qualcosa di permanente.
“ Il dolore appare stranamente assimilabile alla Passione di Cristo, quasi chiamato ad integrarsi con quella, quasi costituente una condizione di favore rispetto alla Redenzione operata dalla Croce del Signore. Il dolore diventa sacro ” (Paolo VI – Venerdì Santo 1964).

RICCHEZZE DELLA VOCAZIONE AL DOLORE
Ricchezza personale perché la creatura non solo viene associata al piano di Dio mediante la grazia, ma viene ad avere la stessa vocazione di Nostro Signore Gesù Cristo.
Se cosa bella è la vocazione del Sacerdote che continua la vita di Gesù in mezzo all’umanità con una precisa missione di evangelizzazione e di salvezza per il popolo, la missione del sofferente che si inserisce nella missione di Gesù, a completamento della Sua passione, è un presupposto della missione sacerdotale.
L’azione sacerdotale parte dal Calvario; il fondamento di questo Ministero è la passione del Cristo:
non in nome proprio, non in virtù propria egli agisce, ma in nome ed in forza di Colui che lo ha mandato e che tutti ha redento: Gesù Cristo.
Il Calvario di Gesù non è soltanto quello personale del Cristo storico, ma è, anche, costituito dalla somma delle sofferenze di tutti gli uomini, di tutti i tempi e di ogni luogo, che con Lui vivono la propria giornata di dolore.
Il Sacerdote trae quindi forza per il proprio ministero di salvezza verso i fratelli, dalle sofferenze di tutti gli ammalati oltre che dalle sofferenze personali, di Gesù Cristo, in piena conformità a quanto S. Paolo con estrema sicurezza afferma: “ completo nel mio corpo ciò che manca alla passione di Nostro Signore Gesù Cristo” (Coloss. 1, 24).

Mezzo di apostolato

Si comprende così la gioia di S. Paolo al pensiero delle proprie debolezze e sofferenze sopportate per la Chiesa: persecuzioni, incomprensioni, prigioni, tentazioni, dolori. Materiale questo che il mondo non stima, ma che di fronte a Dio è di valore incalcolabile, e costituisce la base di ogni vero apostolato.
Pio XII nel suo discorso ai “ Volontari della Sofferenza ” pronunciato il 7 ottobre 1957 afferma: “ I Sacerdoti rimarranno talvolta meravigliati per l’efficacia delle loro parole, ma si guardino attorno e vedano di chi è il merito ”.
Ecco le ragioni per cui i Santi ebbero sempre una particolare preferenza per i sofferenti.

Ricchezza sociale

La ricchezza sociale ha la medesima ampiezza della Redenzione stessa.
I benefici sociali noi li misuriamo:
a) dalla necessità dell’applicazione della Redenzione: quanti peccati! Peccati sociali, familiari, personali: corruzione, scandali, scuola del male, perdita del senso de limiti, vergogna di mostrarsi onesti; buoni che vengono meno; idee sovversive ed empie che vengono propagate. Tutto male questo che sale e che va arginato, vinto e bilanciato dalla sofferenza santificata dalla grazia.
b) dalle esigenze della società che tutti gli ammalati comprendano la propria vocazione e dal numero invece relativamente ristretto.
Molte sono le ragioni per cui non viene santificato tanto umano dolore:
1 - La mancanza di catechesi: impreparazione
quindi ad affrontare il problema del dolore quando si affaccia, e risolverlo alla luce della fede;
2 - Le difficoltà di ambiente in cui si trovano gli stessi ammalati:
a) in famiglia sono considerati molto sovente dei pesi inutili: non si lavora più, c’è necessità di assistenza ed i familiari sono magari al lavoro, spese per le medicine, ecc.
b) in famiglia spesso si considera nei sofferenti soltanto il lato umano, trascurando il lato positivo e benefico del dolore santificato dalla grazia. Esistono ad esempio familiari che si sentono tante volte paghi unicamente perché hanno provveduto al fabbisogno materiale dell’infermo, ignari delle enormi possibilità soprannaturali.
c) Si omette di svolgere presso gli ammalati tutta quella delicata azione diretta a far scoprire una vocazione nuova, una vocazione che si inserisce nella vita della famiglia, che sposta le visuali di scelta personale: quella di continuatori della passione di Nostro Signore Gesù Cristo.

Difficoltà a vasto raggio

E poi ci sono le tante difficoltà che si incontrano spesso anche negli ambienti ospedalieri, per cui la santificazione del dolore e la stessa assistenza religiosa diventano difficili.

LAICISMO

I - Il laicismo: azione ed impostazione laica della vita con tutti i riflessi facilmente intuibili. Se si tratta di attività laicista svolta da un infermiere o da un medico si ha allora la noncuranza dei valori morali e religiosi, che unici danno uno scopo a quella pagina di dolore, che si sta scrivendo con tante rinunce.
E’ una parola che manca presso un sofferente che cerca di capire il perché di tanto dolore; è un aiuto che viene meno nel momento di ricevere i sacramenti; è un sorriso di compatimento su verità con tanta superiorità giudicate sorpassate; in questa maniera l’ammalato, in ambiente nuovo, senza la normale custodia, l’aiuto e la difesa della famiglia, viene meno nei suoi propositi, non osa più insistere nelle sue convinzioni, oppure si radica in idee non giuste proprio in un momento in cui avrebbe avuto bisogno di essere maggiormente sostenuto ed aiutato a ritrovare la vita cristiana.
Chi dà a questi laicisti il diritto di togliere la libertà, o renderla difficile, quando si ha invece tutto il diritto di ampiamente possederla e di essere sostenuti, proprio in nome della libertà, in determinati momenti in cui l’individuo è più debole e con difficoltà riesce a resistere contro tutto ciò che si oppone?

MASSONERIA

2 - Massoneria, che equivale a laicismo organizzato e sostenuto da più persone ai danni della Chiesa, dei suoi diritti e dei fedeli. Tutti, quindi, i danni già precedentemente denunciati, aggravati ed aumentati dall’organizzazione. Attività religiosa che si vede paralizzata; piani di lavoro che non si riescono a realizzare. Ostentata gentilezza verso tutto ciò che è manifestazione di vita di fede, e poi azione di sordo boicottaggio perché nulla venga attuato.

ATEISMO

3 - Lotta dei senza Dio; lotta anche questa organizzata, studiata a tavolino, freddamente applicata, servendosi dell’individuo per mire politiche.
Non è qui il caso di descrivere la tattica di conquista ideologica svolta dai senza Dio, dai marxisti; attività interna agli ambienti ospedalieri, attività esterna di sostegno alle cellule interne iniziate dallo stesso personale ospedaliero o dagli ammalati.
Ma non dovrebbe l’ospedale essere un ambiente sacro come la Chiesa? Non dovrebbero tali ambienti essere le centrali della grazia e della riparazione, veri fari di luce nell’umanità?
Se togliamo dal cuore di un ammalato la fede, che gli resta? E la gravità morale e
personale e collettiva per un’azione che impedisca a chi soffre di sfruttare tutte le cause seconde e gli inviti della grazia per un incontro con Dio e lo sfruttamento di tanto dolore per sé e per la società?
Si lamentano le guerre; assistiamo ad atti eroici per conservare la pace nel mondo da parte dei responsabili dell’umanità, come il viaggio del Papa alle Nazioni Unite, ma se si ostacolano i primi collaboratori nati della società, quelli che hanno il compito di ristabilire l’equilibrio nella società, di chi la colpa delle guerre e delle incomprensioni?
L’ammalato ha una grande responsabilità di fronte alla società, ma se egli non può valorizzare l’ora del dolore che lo tocca, maggiore responsabilità pesa su tutti coloro che gli impediscono tanto aiuto di salvezza sociale.

LA MORTE

La morte presa cristianamente è un tesoro posto a disposizione di ognuno per poter pagare tutte le proprie miserie ed aiutare anche gli altri a trovare Dio e vivere nel Suo amore.
L’uomo non è nato per la morte, ma per la vita, e
la stessa morte che noi piangiamo se colpiti nelle persone care e che paventiamo, quando pensiamo in proprio, non è cessazione totale della vita, ma una “ incohatio vitae futurae in qua nulla est mors ”.
La morte è la separazione dell’anima dal corpo. Da tale definizione già intravediamo come l’anima continui, dopo la separazione dal corpo, la vita iniziata nel momento in cui è incominciata la vita umana.
La morte è entrata nel mondo attraverso il peccato; la morte è l’epilogo della sofferenza.
S. Tommaso (Il-Il q. CLXIV c. I e VII): “mors ut privatio vitae vel ut terminus alterationis praecedentis est poena damni ”.
La morte è una pena di danno, ossia di privazione, la morte toglie la vita. La morte, come pena, è la più grande, a cui umanamente non c’è rimedio e che tutti tocca. La morte è la conclusione della sofferenza e non una sofferenza di per se stessa.

Come atto d’amore

La morte però vista nella sua finale essenza, anch’essa è un grande atto di amore di Dio verso l’umanità: essa pone a disposizione di tutti un mezzo che può bilanciare qualunque manchevolezza e mette nella condizione di poter meritare come e con Gesù anche per gli altri.
Tutti abbiamo dei peccati; tutti siamo peccatori, TUTTI QUINDI ABBIAMO DIRITTO DI AVERE DA PARTE DI DIO UN MEZZO PROPORZIONATO CHE CI DIA LA POSSIBILITA’ DI SCONTARE I DEBITI CONTRATTI DURANTE LA VITA.
Potrebbe sembrare un paradosso, in realtà la morte è un atto di grande misericordia di Dio verso l’umanità.
Se dopo la redenzione non avessimo più avuto la possibilità del peccato, non avremmo nemmeno avuto bisogno di avere dei mezzi grandemente penitenziali e sommamente giovevoli a nostra disposizione. In realtà la concupiscenza ci dice che il fomite continuamente ci spinge alla infrazione della legge; la debolezza umana ci dimostra con l’esperienza fino a che punto siamo venuti a patti con il nemico delle anime nostre, e se non avessimo nemmeno un mezzo di bilancio, come ci troveremmo di fronte a Dio?
Sì, possiamo avere tante lacune, ma abbiamo pure un mezzo, con cui possiamo ristabilire l’equilibrio, non esistendo prova più grande di amore che dare la vita per l’amico. Non esiste quindi mezzo più grande dì riparazione che dare la vita per Gesù Cristo, con Gesù Cristo, in sconto dei propri peccati.
A questo punto allora si inseriscono conclusioni importantissime:

Stato di grazia

a) necessità di aiutare i fratelli a porsi in stato di grazia perché abbiano a valorizzare così grande tesoro. Una sofferenza ed una morte senza vita di Dio non è fruttuosa.

Consapevolezza

b) necessità di rendere consapevole la persona con tutti i mezzi che la prudenza e la carità pongono a disposizione, perché abbia ad accettare tale prova, aiutandola a mettersi in condizione di valorizzarla al massimo.

Accettazione

c) dopo un’accettazione generica della morte, si esige ancora che si abbia ad accettare anche la prova “ hic et nunc ” come essa si presenta?
Certamente che se si riuscisse a far accettare la morte come si presenta in determinata circostanza, con tutte le sue conseguenze, ci sarebbe maggior merito.

Delicatezza

d) la delicatezza della comunicazione della gravità di stato in cui uno si trova, malattia che sta risolvendosi con la morte, evidentemente pone chi di dovere di fronte a problemi umani e soprannaturali di grandissima importanza. La delicatezza del momento, le preoccupazioni familiari, il timore di impressionare il malato con la manifestazione della gravità del suo stato, non sminuiscono il dovere di pienamente affrontare la situazione e risolverla nei dovuti modi che la carità e la prudenza suggeriscono.

Responsabilità di avvisare

Nessuno ha il diritto di togliere alla creatura ciò che Dio le ha posto a disposizione per la propria santificazione. Se si pensa che anche una vita di peccato può essere bilanciata con un atto di amore e di accettazione, come si può con tranquillità d’animo lasciare che si vada incontro alla morte senza cooperare ad avere il merito che da tale accettazione scaturisce?
L’accettazione della morte appartiene agli atti di giustizia verso Dio. E’ una pena che si accetta, si valorizza proprio in vista della riparazione ai debiti contratti durante la vita.

E’ una falsa pietà quella di nascondere la gravità della malattia ai sofferenti, perché si priva così la persona cara di possibilità enormi di conquista e di meriti eterni.
E per quanto tempo durerebbe del resto questo atto di falsa pietà? Per poco tempo, perché dal momento in cui la persona cessa di vivere sulla terra e l’anima incomincia a vivere nell’eternità, alla luce della Somma Verità, Dio, immediatamente percepisce i veri valori, quelli che restano o quelli che attirano una condanna.
L’anima sente allora immediatamente l’amore riconoscente verso chi l’ha aiutata a sistemare partite magari rimaste aperte da anni, o il senso di odio per quelle persone che con la loro falsa pietà hanno contribuito a tenerla in stato di peccato, nascondendole la verità fino alla fine.
La congiura del silenzio in simili situazioni sarebbe una ben triste commedia, malamente recitata attorno a chi sta male e tragicamente conclusa in forma, magari, irreparabile.

A chi tocca tale dovere?

Ad incominciare dai parenti più stretti, padre, madre, fratelli, sorelle, sposi, ecc. fino ad arrivare al medico, al sacerdote, all’infermiere, a chiunque si trovi ad essere anche fortuitamente a contatto di una persona che è nell’imminenza di lasciare questa terra e nella necessità di essere aiutata.
Nessuno è esente da tale obbligo. Nel caso preciso tocca a chi è vicino con vincoli di sangue, di assistenza o di cause seconde. Nascondere al sofferente il suo stato non è un agire da cristiani, non è un sentire i bisogni della cristiana società.

FORZA DELLA GRAZIA DI STATO

Né si può inoltre dimenticare la grazia di stato, ossia la grazia del momento presente, che evidentemente scatta nell’istante in cui se ne ha bisogno. Il valore di una santa morte dipende dall’accettazione e santificazione o meno di essa; se chi agisce attorno ai sofferenti agisce con spirito di fede, secondo le regole non della prudenza della carne, ma dello spirito, il Signore non manca di intervenire per il maggior bene di quell’anima. Anche nel caso deprecato che venisse respinto l’invito, per lo meno chi resta non ha il rimorso di aver negato ad un’anima tutti quegli elementi che forse avrebbero contribuito a scuotere o a ravvivare una fede assopita.

La Madonna accanto a chi soffre

Argomento pieno di luminosa fiducia è la continua constatazione dei benefici effetti del fiducioso ricorso alla Madonna. La Vergine Santa è madre che veglia ed attende il proprio figlio, la Lei generato alla vita della grazia e tante volte soccorso, per presentarlo al fratello maggiore Gesù ed introdurlo nella Gerusalemme celeste.
La Madonna è Madre che, con le sue sollecitudini materne, veglia più che mai in quei momenti perché la persona con la cessazione della vita terrena sancisce la sua posizione di fronte a Dio. Non può quindi essere assente dal capezzale dei figli Colei, che è la Mediatrice di ogni grazia e che con Gesù unico Mediatore, ha meritato sul Calvario per ciascuno di noi ed ha inoltre visto quanto costiamo al Suo dilettissimo Figlio. La Madonna, quindi, proprio in virtù della sua funzione materna sarà quanto mai vicina alla croce di ogni figlio, come fedelmente è stata accanto alla croce di Gesù.
Nella vita di S. Giovanni di Dio si narra il bellissimo episodio avvenuto al termine della sua vita. Sfinito dal dolore, preoccupato per i debiti della propria fondazione, pieno di amarezze, Giovanni di Dio, si rivolgeva alla Vergine Santa, lamentandosi di non sentire in quei dolorosi momenti il suo materno aiuto. La Madonna apparve allora al suo figlio prediletto come già gli era apparsa quando lo aveva chiamato dalla vita svagata delle armi, e dolcemente rimproverandolo, gli dice: “ Non è mia consuetudine abbandonare i miei devoti in questi supremi istanti ”.

Accettazione della morte

La Chiesa ci è sempre maestra; non è proprio il caso che noi aspettiamo l’ultimo momento della nostra esistenza in cui forse non avremo nemmeno più la facoltà di comprendere. L’atto di accettazione lo possiamo compiere fin d’ora, e la Chiesa lo ha arricchito con l’Indulgenza Plenaria.
Non ci sono formule obbligatorie. E’ sufficiente un atto di accettazione anche fatto al termine di questa lettura. Quest’atto, innestato nell’eternità di Dio, se non viene espressamente ritratto, vale per quegli ultimi istanti.

CONCLUSIONE

A conclusione di quanto detto, in piena convinzione del valore di una vita sofferente santificata dalla grazia, fraternamente e con fede diciamo:

AI MASSONI ED AI LAICISTI

Non impedite l’esercizio di questa fede cristiana da cui dipende anche la vostra salvezza; non calpestate volontariamente il sangue mistico di Cristo — la Sua grazia — che circola nei nostri ammalati. Sappiate che anche voi siete loro debitori. E’ pietra angolare la pietra di Cristo e guai a chi cade sopra di essa!

AI SENZA DIO

Non colpite doppiamente di sventura i nostri sofferenti. Se togliete Dio che cosa resta ad un ammalato? Spegnere la fede in un’anima è sempre grave, ma spegnerla in un ammalato è togliergli l’unica ragione della sua esistenza: è doppiamente omicidio.

AI MEDICI

Siate consapevoli della vostra missione. L’ammalato riveste un aspetto di sacralità; il sofferente è doppiamente segnato dal sigillo particolare della Croce; per voi valgano le parole dette ai Sacerdoti nel giorno della loro ordinazione: “ Agnoscite quod tractatis ”. Trattate gli ammalati con il rispetto, la riverenza, l’amore con cui il Sacerdote tratta l’Ostia sull’altare. L’ammalato si affida totalmente a voi come il Cristo si affida totalmente al Sacerdote. Lo stare vicino ai sofferenti è dire una parola di illuminazione e di conforto.
E’ questa la missione del medico, perché anche quando egli sa che non c’è più nulla da fare fisicamente, sa però che la persona ha un fine ben preciso da raggiungere e va quindi sostenuta.

AGLI INFERMIERI

Portate volentieri la Croce del Cristo Mistico che vive e soffre accanto a voi. Portate la croce non perché costretti, ma per amore. E’ la Croce di Gesù. Voi, soprannaturalizzando la vostra offerta ed il vostro aiuto, potete dire: “ Anch’io ho aiutato Gesù lungo il Suo Calvario ”.

ALLE FAMIGLIE

Non imprecate alla sorte se siete state chiamate a portare la croce con i vostri sofferenti. La vostra casa è stata segnata dal sigillo della salvezza come la casa degli Ebrei verso la terra promessa. Benedirete le croci che sono state levate sul Calvario delle vostre case. E’ il Curato d’Ars che ce lo dice: “ Guai a quelle famiglie dove non c’è il sigillo della Croce ”.

ALL'OPINIONE PUBBLICA

Si rispetti e si consideri ogni sofferente come il più grande benefattore della società. Soltanto in questa luce e non al di fuori va visto l’ammalato. Il sofferente è un benefattore come lo è il medico, come lo è l’industriale che cristianamente vive la sua missione.

ALLE ANIME BUONE

Vedete l’abbondanza del lavoro, lavoro nuovo:
aiutare gli ammalati ad essere soggetti di azione e non soltanto oggetti di carità. Lavoro missionario che riempie di gran lunga gli affetti di una famiglia e di una figliolanza ristretta.
Dilatate gli orizzonti!

Ai SACERDOTI

Vedete nei sofferenti i vostri primi collaboratori; sosteneteli; non dite loro che avete tanto da fare. E’ lavoro apostolico quello che ci porta al capezzale del sofferente. La predicazione parte da un punto solo: da Cristo Crocifisso e dal Calvario, ove si trovano anche i sofferenti. Le anime si salvano soltanto con la preghiera e la sofferenza e non con artificiosi argomenti creati dalle nostre menti. Se il nostro ministero talvolta è scarno, ascoltiamo la lezione del Curato d’Ars. Vediamo se abbiamo santificato le anime che ci sono attorno, “ con le nostre ginocchia ”, ossia con la preghiera e con il sacrificio, e se non possiamo attirare le anime con le sole nostre deboli forze prendiamo le croci che ci sono nella nostra Parrocchia e mettiamole davanti al Crocifisso, affinché in questa maniera si possa far violenza sul Cuore di Gesù.
Quando le porte sono chiuse, c’è ancora un mezzo per entrare ugualmente nelle case: la preghiera e la sofferenza dei nostri ammalati.

AI MALATI

Guardate il mondo come l’ha guardato Gesù dall’alto della Croce. C’è chi vi maledice, c’è chi vi sopporta, c’è chi impreca; ma c’è il bene enorme che parte dalla vostra Croce e si riversa sul mondo.
C’è accanto alla vostra Croce in modo particolare Maria Ss.ma, nostra comune Madre celeste, che veglia, che è fedele, che ci ama perché vede in noi Gesù che continua il Suo Calvario.
Breve è la sofferenza: eterno il premio ed il Paradiso.