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Venerabile Mons. Luigi Novarese - Scritti editi:
L’Ancora: n. 4/5 - aprile/maggio 1971 - pag. n. 2-7

LA VOCAZIONE DEL SOFFERENTE

II parte

(Dal Volume « L’ammalato ed il matrimonio » stralciamo alcuni passi del tema « Sofferenza, mia promozione e sviluppo » svolto da Mons. Novarese).

La vocazione generale diventa vocazione personale allorché, in concreto, la persona determinata per mezzo del battesimo viene innestata nel Corpo Mistico. In questa realtà misteriosa ma reale, il fedele porta col Cristo la propria croce, vivendo quanto di sofferenza, in ordine morale e fisico, vi è nella vita stessa.
Il Cristo ha lanciato una vocazione al dolore e questa vocazione non è qualcosa di astratto, deve pur realizzarsi in persone ben determinate. Essendo regola generale per ogni cristiano che egli viva una vita da creatura risorta dalle conseguenze del peccato, ne consegue che qualunque sia la strada che percorre, affinché questa porti al Cielo, deve avere le dimensioni della Croce, sorta dallo sforzo personale per adeguarsi al suo nuovo stato di redento e dalle stesse conseguenze del peccato quali il lavoro, il dolore e la morte. Non è la sofferenza tributo che deve essere pagato soltanto da qualche esemplare della grande famiglia umana, ma tutti indistintamente i componenti di questa famiglia sono chiamati a portare la croce con Cristo. Il che significa che ogni aderente al Cristo diventa cristiano (di Cristo-seguace Suo) solo e in quanto accetta l’invito di prendere la propria croce e di seguirLo.
« Nè la Redenzione del Cristo, né la potente mediazione di Maria Ss.ma possono salvarci se non c’è la nostra personale collaborazione » (Signum Magnum n. 14): la nostra collaborazione sta nel diventare seguaci di Cristo accettando la Sua parola e portando con Lui dietro di Lui la propria croce, bevendo con Lui il calice della passione.
Questa chiamata generale rivolta a tutti, «chi vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la propria croce e mi segua » è realmente una «inequivocabile vocazione » ossia una vera chiamata, che viene dal Cristo affinché ciascuno partecipi al proprio ed altrui riscatto. La chiamata da parte di Dio è un elemento caratteristico e basilare nel concetto di vocazione.
Nel caso che stiamo considerando non si tratta soltanto di inclinazione interiore, di mozione dello Spirito Santo ma di esplicito ed esterno invito personalmente rivolto dal Divin Redentore ad ogni singola anima di buona volontà.
Non si può equivocare sulla chiamata per vedere chi debba portare o meno la croce, tutti e ciascuno in particolare siamo dei « vocati » e tutti abbiamo sommo interesse a rispondere. Sarà questione di vedere la posizione di ciascuno nella funzionalità e vitalità del Corpo Mistico, per cui vedremo che diverse sono le partecipazioni alla Croce, pur rimanendo per tutti uguale l’offerta suprema della morte.
Tante sono le gamme dei sofferenti attorno a noi, dalla sofferenza dei bambini a quella degli anziani, dai giovani con desideri di vita a quella di coloro che si vedono stroncati nelle proprie aspirazioni.
Attuare il piano redentivo è inoltre la fondamentale vocazione del Figlio di Dio che si è incarnato. Ma questa vocazione fondamentale del Cristo immediatamente investe ogni uomo dall’istante in cui viene a far parte del Suo Corpo Mistico. L’argomento quindi non interessa soltanto i sofferenti ma tutte le membra del Corpo Mistico, poiché ciascun membro acquista la propria funzionalità e complementarietà soltanto attraverso la Croce.
Ecco allora che il soffrire, il portare la croce con Cristo, diventa il dare inizio a « quell’arte strana e stupenda, quella di saper soffrire, quella di far servire il proprio dolore alla propria ed altrui redenzione (Paolo VI, 27-III-1964).
L’attività vocazionale del portare la croce con Cristo diventa stato, ossia vocazione in atto, allorché dall’accettazione teorica dell’invito si passa all’accettazione concreta della sofferenza crocifiggente, lunga o corta che sia, morale o fisica offrendola al Padre con quella che ha sofferto il Cristo sul Calvario e che ogni giorno Egli in maniera incruenta, rinnova e offre sull’altare.
L’accettazione concreta dell’invito a portare la croce costituisce il secondo elemento fondamentale nella sfera di studio ed esame del piano vocazionale.
L’accettazione di portare la croce con Cristo non introduce nella vita dell’uomo fonti nuove di sofferenza al di fuori di quelle inerenti alla propria caratteristica testimonianza cristiana a cui ci si è impegnati, ma comporta accettazione delle medesime e volontaria offerta con quelle del Cristo da cui acquistano valore e scopo.
Il dolore infatti con la Redenzione non viene annullato, ma trasformato. E’ nella possibilità dell’uomo dargli o meno un significato ed una funzionalità; e questo è frutto di analisi interiore, di scelta e di libera risposta.
Il Cristo si è offerto perché lo ha voluto» (Isaia, 53, 1); analoga posizione di libertà esiste anche di fronte al problema del dolore.
Grandemente errano coloro che escludono questo tema per i sofferenti, affermando che non si può parlare di vocazione alla sofferenza proprio perché l’uomo non è libero di fronte al dolore.
La libertà dell’uomo di fronte al dolore non è da ricercarsi nel fatto che egli possa o meno respingere la sofferenza nel caso concreto.
La sofferenza, infatti, è stata introdotta nell’umanità in conseguenza di un atto liberamente posto all’inizio del genere umano. L’uomo avrebbe potuto, allora, infatti respingere tutte le conseguenze del peccato con la fedeltà alla legge da Dio stabilita. Con la trasgressione il dolore è entrato nella vita dell’uomo e fa parte della sua esistenza, essendone l’atto conclusivo per tutti uguale, la morte.
La chiamata dunque del Cristo attende una libera e volontaria risposta. Con la risposta la creatura diventa attiva, positiva con Cristo sia pure in minima parte, fonte di bene, completando con la propria sofferenza ciò che manca alla Sua passione. Ecco perché Sua Santità Paolo VI rivolge ai sofferenti meravigliose affermazioni come queste: « la cristiana società ha bisogno di voi; il Divin Modello chiede l’offerta di queste prove per condurre a compimento i Suoi misteriosi disegni di salvezza e di santificazione delle anime » (Paolo VI agli hanseniani, 6-IV-1964).
Il Santo Padre illustrando ancora la posizione dell’ammalato nella vita della Chiesa afferma:
« il sofferente non è più inerte e di peso negativo per la società umana e spirituale a cui appartiene; è un elemento attivo; è uno come Cristo che patisce per gli altri; è un benefattore dei Fratelli, è un ausiliario della salvezza. Solo che questa estrema valorizzazione del dolore esige due condizioni: l’accettazione e l’offerta; l’accettazione paziente e capace di intuire un ordine dietro e dentro il dolore stesso, la mano paterna anche se grave del medico divino che sa trarre il bene, un bene superiore, da un male, il male della sofferenza; e l’offerta che al dolore dà valore proprio della vittima che annulla in se stessa le esigenze della giustizia e che da se stessa trae la somma espressione dell’amore; dell’amore che dà, dell’amore totale ».
La vocazione al dolore è una vocazione base, generale, che si inserisce in tutte le varie vocazioni che ci possono essere nel Corpo Mistico.
Ci sono delle creature poi che si direbbero chiamate a realizzare nella propria esistenza unicamente la vocazione di « ausiliarie della salvezza »: sono quelle creature chiamate al dolore fin dai loro nascere, che non hanno mai assaporato il dono della salute e della propria indipendenza; creature che non hanno mai provato la gioia di fare un passo da sole, di servirsi da sé.Tale condizione però lungi dall’essere una menomazione apre la visuale per una promozione totale; non soltanto allora si verifica l’affermazione paolina « per me vivere è Cristo » (Filip. I, 21) ma la stessa vocazione redentrice del Cristo si identifica nella continuità di offerta, dovuta alla permanente condizione crocifiggente del sofferente.
E’ una chiamata di cui non riusciremo mai su questa terra a sondarne i motivi; è una chiamata straziante che attua e continua nella creatura il calvario del divin « Capo »; è una chiamata che ci butterebbe nel baratro della disperazione se non avessimo il sostegno della fede, se non avessimo in noi la meravigliosa certezza della risurrezione del Cristo, che resta come suggello e garanzia della nostra futura risurrezione.
Con verità possiamo domandarci, « o morte dov’è la tua vittoria» (I Cor. XV, 54), quando attorno alla vita di tanti sofferenti, immobili, veri crocifissi viventi, vediamo che fiorisce tanta vita, tanta fervida attività, tanta serenità!
Basta vedere la fervida vitalità della Chiesa dei nostri tempi, nonostante le tante ferite che si cerca di infliggerle; la stupenda serie di Santi, veri eroi dei nostri tempi che continuamente emergono quali fari luminosi e guide sicure; la costanza della Chiesa del silenzio; la stessa chiarezza e fermezza del Pietro dei nostri giorni; tutto dice la forza travolgente del Calvario che continuamente spande forza e calore dando a tutti sostegno per una degna testimonianza.
La vita di ogni sofferente è indubbiamente la dura continuazione del venerdì santo; ma è proprio nel venerdì santo che si è frantumato il potere del principe delle tenebre.

L.N.