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Venerabile Mons. Luigi Novarese - Scritti editi:
L’Ancora: n. 1 - gennaio 1971 - pag. n. 1-5

VOCAZIONE ALLA SOFFERENZA

I parte

Sua Santità Paolo VI parla di «vocazione al dolore» (27 marzo 1964) di « inequivocabile chiamata» (8 aprile 1964): affermazioni queste da noi pienamente condivise, accettate e continuamente presentate al nostro Centro, forti della logica interiore che ci lega al piano della Redenzione ed al Vicario di Cristo.
Alcuni, pur dediti all’apostolato verso i sofferenti definiscono questo discorso pie esaltazioni, prive di fondamento teologico, dette per confortare gli ammalati; altri, saturi di materialismo pratico, le scartano a priori come affermazioni lesive alla dignità dell’uomo, nato per la gioia, la vita, l’affermazione.
E’ vero che l’uomo è stato da Dio creato per la vita, per l’operosità senza sofferenza, in uno stato in cui non c’era la morte. Ma questo stato durò ben poco. Il peccato originale, pur lasciando nella creatura la sete delle finalità supreme per cui era stata creata, ha tristemente frantumato i rapporti con Dio e l’uomo ha di conseguenza perso tutti i doni al di là della natura che gli erano stati concessi nell’attimo della sua creazione, come la vita di Dio in sé, l’assenza del dolore, ecc.
Da quel momento, quale frutto del peccato è subentrata nella vita la morte (Rom. VI, 24), ma la morte non è il frutto normale della vita (Journet, « Il male », p. 273) e la vita dell’uomo è in se stessa, un vero inizio di parabola che non avrebbe mai dovuto essere discendente, perché il declino non può essere una distruzione totale dell’essere umano (anima e corpo) da Dio creato. Tali idee di totale distruzione cozzerebbero anche contro tutto l’istinto umano, che mira a crescere, a progredire continuamente. L’uomo con la sua cattiveria distruggerà dei corpi, ma nulla può fare contro le anime (Mt., X, 28).
La stessa « vita » ecco, io vi dico un mistero (I. Cor. XV, 15) riprenderà; ora si trova in una fase di dissociazione, che disintegra il corpo, e lascia
superstite l’anima, ma priva dello strumento naturale per le sue facoltà spirituali normali. Un giorno, se qui siamo inseriti in Cristo, il nostro essere risorgerà, ricomposto, perfetto e felice » (Paolo VI, 8 novembre 1970). Col peccato l’uomo ha invitato il dolore ad entrare nella scena umana, ma non è questo l’unico e più grande male.
Gesù infatti, ci ammonisce di temere quelle persone che dopo aver distrutto la vita corporea, possono portarci a perdere anche quella futura (Lc. XII, 5).
Altro frutto amaro del disordine procurato dall’uomo è la concupiscenza, quell’inclinazione cattiva che avvertiamo dentro di noi, che ci spinge a ricercare un bene immediato, al di fuori dell’ordine da Dio stabilito.
Proprio da questo stato miserevole, in cui è caduta la creatura nasce la generale vocazione a riparare l’offesa fatta a Dio; ma come realizzare questo? e con quali mezzi se l’uomo non ha più la vita di Dio in sé? Un morto non può compiere le azioni proprie di un vivo.
Evidentemente parliamo di realtà spirituali che possono interessare l’anima, che è facoltà spirituale, ed il corpo, componente necessaria per la nostra vita terrena, in quanto che anche nella Sua completa disgregazione attesta il peccato dell’umanità e l’attesa della misericordia.
Di fronte a questa radicale impossibilità di risorgere dallo stato in cui l’uomo liberamente era caduto, Dio spinto dall’amore, accoglie l’iniziativa presentataGli dal Suo divin Figlio di redimere il genere umano ed il Figlio riconcilia al Padre l’umanità caduta, annientando nel proprio sacrificio il peccato stesso, ridonando all’uomo, anima e corpo, il suo fine totale: ecco che dalla croce realmente ancora fiorisce la vita, la speranza, l’amore.

Vitalità della sofferenza

Il dolore con l’incarnazione del Cristo, non soltanto viene vinto, ma diventa altresì l’elemento scelto, voluto, quale mezzo di pacificazione e di propiziazione, fonte quindi di bene.
Il dolore però in quanto tale resta sempre un male, anche se trasfigurato dalla grazia; l’uomo rimane sempre inclinato verso il dolore; ciò che è cambiato è la sua intrinseca valorizzazione avuta dal momento in cui il Cristo ha assunto l’umanità ed è diventato in tutto simile a noi, fuorché nel peccato.
Da tale preciso istante il dolore, pur restando un male, ha assunto anche la bivalenza di bene e l’uomo, pur rimanendo sempre relativo ad esso, viene ad essere esplicitamente invitato a guardarlo nella sua nuova fisionomia acquisita e ad andargli fiduciosamente incontro come ad un grande amico, di cui se ne può ampiamente e positivamente servire.
Presentando il Cristo il dolore all’umanità, lo presenta nello stato di « vinto », di trasformato, di superato, di realtà che ha perso quanto di funereo aveva in sé.
Proprio perché ha nuove possibilità positive di bene, il Cristo lo presenta con la Sua persona dolorante ed invita ad andargli incontro: l’amore per la creatura ha spinto Dio al piano della redenzione; l’amore per Iddio deve spingere la creatura ad accettare il dolore per potere andare incontro a Lui.
Avendo Dio scelto il dolore quale. mezzo di riconciliazione universale, ne consegue che la umanità intera è invitata ad andargli incontro; avendo tutti bisogno di redenzione.
Nella constatazione dei frutti sovrabbondanti nella passione del Cristo, completata dalla sofferenza anche di tutta l’umanità, non possiamo più muovere lamento verso i nostri progenitori, bensì dobbiamo benedire la somma bontà di Dio creatore, il quale vedendo l’uomo nell’afflizione della sofferenza, proprio perché intensamente e divinamente lo amava, ha accolto l’offerta del Figlio (il Verbo - il Pensiero del Padre, tutto il Padre) che si faceva creatura assumendo su di sé il dolore per essere uno di noi, come noi, ma con possibilità e realtà infinite, lasciate quale frutto del Suo amore perennemente operante in noi e tra di noi.
Il sofferente in questa chiamata universale al dolore evidentemente è il primo ad essere interessato; e colui che immediatamente può realizzare la chiamata del Cristo, perché, pèr dato di fatto, si trova ad essere nello stato che di per se stesso è lo stato scelto dal Cristo per effondere su tutti i benefici frutti della Redenzione.
E’ il Cristo che nella realtà della propria vocazione redentiva, dal trono della Croce, trono da Lui voluto ed atteso «lancia una vocazione al dolore» (Paolo VI - 27 marzo 1964).
Il sofferente nell’insegnamento della passione, è investito quindi di « una vera, grande, inequivocabile chiamata a dar compimento nella propria carne a ciò che manca alle tribolazioni del Cristo a pro del Suo Corpo che è la Chiesa ». (Paolo VI - 8 aprile 1964).
« Solamente nel mistero del Verbo incarnato trova luce il mistero dell’uomo.
«Agnello Innocente col suo sangue sparso liberamente ci ha meritato la vita ed in Lui Dio ci ha riconciliati con Se Stesso e tra noi e ci ha strappato dalla schiavitù del peccato e di satana. Soffrendo per noi non solo ci ha dato l’esempio perché seguiamo le Sue orme ma ci ha anche aperto la strada, percorrendo la quale la vita e la morte vengono santificate ed acquistano nuovo significato » (La Chiesa nel mondo contemporaneo, n. 22).
Ma quali sono queste orme di Cristo che dobbiamo seguire se non quelle dà Lui calcate nel piano della riparazione, in cui l’uomo o per di più l’uomo sofferente ha un posto preciso, dal Divin Redentore presentato e voluto, affinché nella luce dell’Incarnazione possa con Lui arrivare alla propria salvezza?
«Chi vuol venire dietro di me » deve innestarsi nel piano della croce e la deve portare con Lui per formare in tale modo un unico sacrificio di espiazione, attraverso il quale tutti possano attingere la gioia della vera risurrezIone pasquale che costituisce la suprema chiamata universale.
E’ questa la vera e somma generale chiamata, ossia chiamata a portare la Croce con il Divin Redentore per la salvezza di tutti.
Il Cristo però non si limita a lanciare la vocazione al dolore, ma affinché noi ci inseriamo nelle dimensioni da Lui stabilite, rivolgendoci l’invito di volerlo seguire, percorre Egli per primo, volontariamente, la via che ci presenta in maniera tale che seguendo i suoi passi noi perdiamo la paura di fronte alla sofferenza, nella certezza della vittoria totale sul peccato e sulla morte.

L.N.