Venerabile Mons. Luigi Novarese - Scritti editi:
L’Ancora: n. 3 - marzo 1958 - pag. n. 1-5
L’AZIONE DELL’AMMALATO
L’anno centenario dell’apparizione della Vergine Santa a Lourdes ci porta a
considerare, con maggiore attenzione, gli impegni che noi abbiamo come
cristiani, come sofferenti, come anime che, liberamente e volontariamente, si
sono poste al servizio di Maria Santissima. lì cristiano non è un a solo,
destinato a pensare soltanto a se stesso.
Il precetto della carità lo precede e gli sta dinanzi continuamente, perché
dalla stessa carità egli è redento nutrito e santificato.
« Dio ha talmente amato il mondo da sacrificare il proprio Unigenito ».
Questo programma, comune a tutti i fedeli, l’ammalato lo deve vivere in vera
intensità.
Egli deve essere un apostolo.
E’, infatti, un eletto, ossia, ha una vocazione ben precisa: portare il suo
contributo per il completamento della passione di Nostro Signore Gesù Cristo.
Non è lui che si è posto in tale stato di sofferenza: le cause seconde, da Dio
permesse, sono state determinanti in questa sua vocazione.
La voce di Gesù aveva chiamato gli apostoli alla Sua sequela:
la volontà di Dio, permissiva, ha chiamato noi, dalla normalità della vita, a
vivere segregati, lontani dalla vita, pur restando nella vita, col compito di
essere perni della vita stessa, perni che tengono l’equilibrio nella società,
bilanciando ai tanti peccati che si commettono.
Essere ammalati, vuol dire essere degli eletti, « dover » essere degli apostoli.
Il Santo Padre ha espressamente scritto nella preghiera, benevolmente per noi
composta: « Eletti alla sublime grazia della sofferenza e desiderosi di compiere
in noi quel che manca alla passione di Cristo, a pro del Corpo di Lui che è la
Chiesa...».
Nessun cristiano vive soltanto per sé, la legge della grazia e del Corpo mistico
immediatamente pone a beneficio di tutto il corpo ciò che costituisce il bene
del membro.
L’ammalato, a maggior ragione, sente questo imperativo di essere per gli altri,
perché la sua vita di sofferente è: continuare e completare la passione iniziata
dal Redentore. La passione è stata « essenzialmente »per gli altri, per la
salvezza dei peccatori.
Così pure la vita del sofferente è essenzialmente di apostolato, perché offre la
propria passione con le stesse finalità di Nostro Signor Gesù Cristo.
Sull’esempio di Gesù l’impegno del sofferente è duplice: un impegno di santità
ed un impegno d’azione, che termina nel « consummatum est ».
Impegno di santità
L’impegno di santità è inerente alla vita del cristiano; « Eravamo figli
delle tenebre, ora siamo figli della luce, quindi come tali camminiamo »
(Efesini 5, 9).
Il cristiano non vive più per se stesso ma « per Iddio ». La vita del redento è
tutta relativa a Dio, è una vita essenzialmente santificata dalla grazia.
Diventare membra del Cristo, mediante il battesimo, vuol dire accettare
l’imperativo di essere santi « questa è la vocazione vostra, la vostra
santificazione ». Gesù nella pienezza del Suo amore divino ci getta in questo
programma infinito, che non conosce soste, barriere, o mezze misure; « siate
perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste
Noi siamo i tralci, Cristo è la vite. Da questa verità deriva la conseguenza che
il tralcio deve avere la piena ed abbondante linfa della vite. La stessa linfa
deve scorrere tanto nella vite, quanto nel tralcio. Il potatore taglia i tralci
inutili e secchi, affinché non perisca la vite.
Così avviene anche nell’ordine iella grazia.
Tutto ciò che non porta la sigla di Dio è destinato a perire, « colui che non
semina con me, disperde ».
La santità si riflette sulla vita della Chiesa ed è per questo che il fondatore
nostro, Gesù Cristo, l’Uomo Dio, ha santificato se stesso affinché la sposa Sua,
che è la Chiesa, fosse « immacolata, senza rughe »ed avesse la sua stessa
identica vitalità.
La santità dell’individuo si riflette sull’apostolato e sull’attività che
svolge. « Diportatevi come si conviene a figli della luce e dimostratevi con le
vostre opere che voi siete figli della luce. Il frutto poi della luce consiste
in ogni forma di bontà di giustizia e di verità “. E più specificamente
l’apostolo Paolo continua: « Si vedrà dunque che siete figli della luce, se le
vostre azioni saranno buone, giuste, vere, senza finzione e se vi preoccuperete
di cercare ciò che piace al Signore »(Ef. V, 8-11).
Questo impegno di santità è la base dell’apostolato. Bisogna vivere il proprio
ideale senza compromessi, con entusiasmo, fino in fondo.
La grazia di stato ci accompagna sempre, ma questa implica il personale lavorio
che dobbiamo svolgere su noi stessi, come l’artefice sulla massa dell’oro.
Tale lavorio è opera dello Spirito Santo, che spinge a mete sempre più alte, ma
è altresì opera del-
l’anima, la quale cerca in tutto ciò che compie di piacere sempre di più al
Signore, togliendo tutto quello che potrebbe a lui dispiacere, per essere
perfetta come è perfetto il Padre celeste. « Quae placita sunt ei, facio semper
», tutto quello che piace a Lui, al Padre, io lo faccio sempre.
L’apostolato dell’ammalato è tra i più belli dopo quello del sacerdozio;
l’impegno di santità che egli ha è un impegno di santità assoluta, perché,
dovendo essere il continuatore della passione del Cristo, la deve continuare «
come l’ha iniziata Lui, nella forma che Egli l’ha attuata ».
L’infermo deve sentire nel proprio cuore lo stesso desiderio di riparazione di
Gesù Cristo, lo stesso amore per i peccatori, lo stesso desiderio di morire come
il chicco di grano, perché la vita germogli attorno a sé
Nel corpo mistico, questa funzione di apostoli della sofferenza è quanto mai
importante, è lo stesso Santo Padre che ce lo ha detto, nel Suo Messaggio a noi
diretto: «Chi potrebbe dire le misteriose relazioni delle anime? Chi penetrerà
pienamente il mistero ineffabile della comunione dei Santi? Col vostro dolore
soprannaturale offerto voi potete conservare tante innocenze, richiamare sul
retto cammino tanti traviati, illuminare tanti dubbiosi, ridare serenità a tanti
angosciati “.
Non è detto che coloro che ci circondano debbano comprendere il nostro
sacrificio. Nemmeno la passione di Gesù, « stoltezza ai gentili ed ignominia per
i giudei » era stata compresa.
Condannato come un malfattore, circondato da ladroni, Gesù fu trascinato al
patibolo come « un agnello », in mezzo alle ingiurie, agli schemi ed ai lazzi.
Soltanto la Vergine fedele era vicino a Lui nella più completa partecipazione,
mentre i pochi che L’avevano seguito fino al Calvario piangevano per la sorte
toccata al loro Maestro.
Può anche essere che nella nostra sofferenza ci sia, talvolta, come in Gesù
l’incomprensione se non il disprezzo, la commiserazione sterile, che tanto urta
l’animo di qualsiasi malato.
Può anche essere che noi viviamo in un’ospizio o in un ricovero, ove soltanto la
carità di Dio — sorte invidiabile per un’anima che comprenda il santo abbandono
alla Divina Provvidenza — ci venga in aiuto. In simili casi non abbiamo nemmeno
il conforto di una visita, di una parola di cristiano sostegno, tutto dobbiamo
attendere dagli altri, dalle cose più piccole a quelle più importanti per la
vita.
La grande massa delle persone, nella maggior parte delle volte non si accorge
del nostro sacrificio, ci ignora, e, magari, ci compatisce.
Ci verrebbe da pensare proprio come ci ammoniva il regnante Pontefice
all’inutilità del nostro sacrificio, e, forse, la disperazione ci prenderebbe se
la grazia del Signore non vegliasse continuamente sopra di noi.
Ma anche in questo caso l’imperativo della santità non viene meno.
Dobbiamo essere ugualmente degli apostoli. Dobbiamo dare, dare continuamente,
come nostro Signore Gesù Cristo in Croce; dobbiamo donarci senza limitazione o
restrizione di volontà fino a donare tutti noi stessi con amore, con
compatimento, con vivo desiderio di riparazione.
La santità della nostra vita e l’eroismo talvolta della nostra offerta non
implicano la comprensione degli altri.
Deve essere per noi di sostegno, come ancora ci esortava il Santo Padre nel Suo
primo Discorso agli infermi, la visione di Gesù Crocifisso.
L’incomprensione altrui, l’isolamento in cui trascorre tutta la nostra vita non
ci esime dal fare il nostro dovere.
Se tutta la vita fosse soltanto quella che noi viviamo su questa terra, potremmo
avere anche ragione, ma la vita nostra continua oltre il tempo, noi siamo « gli
abitatori del Cielo ».
Possederemo quella vita che non conoscerà più tramonto, che non avrà più
angustie, ove tutti avremo la stessa sorte, sia quelli che si sono sposati come
quelli che non si sono sposati, sia quelli che hanno goduto come quelli che sono
stati privi di ogni felicità.
In cielo le posizioni saranno capovolte quelli che noi stimavamo insensati,
saranno invece i felici, i sapienti; quelli che hanno goduto qui in terra, non
godranno più, perché già ‘hanno avuto il loro premio.
La parabola del ricco epulone è sempre terribilmente viva ed ammonitrice.
La vita di un sofferente sarà allora radiosa e bella, se egli avrà vissuto la
sua vocazione, se avrà raggiunto quella santità che il Signore aveva per lui
stabilito fin dall’inizio dell’eternità.
Maria Santissima a Lourdes ed a Fatima ha solennemente richiamato questi
principi fondamentali di grazia e di santità.
Il nostro dovere quindi è quello di essere degli apostoli.
La base dell’apostolato è una sola, la santità.
Più grande è la santità nostra, più grande sarà l’edificio che noi costruiremo.
Più forte è l’impegno di santità cIme noi viviamo, più efficiente sarà l’azione
del nostro Centro.
Più noi siamo accetti a Dio e più la nostra preghiera sarà ascoltata dal Padre
Celeste.
Le necessità nostre sono innumerevoli: necessità individuali, necessità delle
famiglie, necessità del nostro Centro, della società intera.
Tutta l’atmosfera che noi respiriamo, tutte le circostanze che ci circondano non
fanno altro che ricordare a ciascuno di noi il nostro impegno: sii santo, perché
questa è l’esigenza del tuo apostolato.
L.N. (continua)
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